Addentrarsi nella poesia italiana contemporanea (2000-2020)
Una prospettiva insulare
Sono nato nel 1993 in un’isola, la Sardegna, una terra con un’identità, una cultura e una lingua piuttosto peculiari e lontane per diversi aspetti dall’italianità. Mi colpì molto il saggio di Károly Kerényi, intitolato Il mitologema dell’esistenza atemporale nell’antica Sardegna, in cui riprendendo alcuni miti sardi, tramandatici rivisitati dalla cultura greca, si sottolineva uno degli aspetti che, a mio avviso, ancora oggi mette a fuoco una caratteristica antropologica dei sardi, ovvero il fatto di porsi al di fuori del tempo lineare, immersi in una lentezza eterna, in cui tutto si disperde per ritrovarsi nel medesimo punto.
La tradizione poetica sarda la vedo più come circolare che progressiva, legata all’oralità e dunque alla matericità della voce, alla concretezza di un dettato poetico che viene improvvisato. I temi si proiettano, dunque, in una dimensione di stretta condivisione per una comunità specifica, in un contesto agonale, per cui la poesia si presenta come estemporanea, un cantare a bolu (al volo). Poi, certamente, soprattutto nel corso del secondo Novecento, si è rafforzata una linea di poesia a taulinu (a tavolino), ovvero che nasce per iscritto.
In ogni caso, il mio addentrarmi nella poesia italiana contemporanea ha dovuto prevedere una fuoriuscita dall’isola, rappresentando un’esplorazione verso un continente a suo modo straniero. La mia formazione è stata sulla poesia italiana e europea, dai classici greci e latini alle tradizioni francese, inglese, tedesca, spagnola, portoghese etc, passando per un vivo interesse per gli altri continenti e in particolare l’Oriente (ho studiato sanscrito e giapponese). Pertanto, mi sento sì culturalmente un cittadino italiano, europeo, globale, eppure residualmente, nonostante tutto, isolano, sardo.
C’è da dire che – e questo riguarda il sistema educativo italiano in generale – durante i miei studi a Cagliari al liceo e al primo triennio universitario in Lettere, la mia formazione poco ha potuto vertere sulla poesia contemporanea: non sapevo ingenuamente dove fossero, come fossero, chi fossero i poeti viventi dell’Italia.
Ho letto e riletto alcuni autori del secondo Novecento, quali Pasolini (a cui dedicai la mia tesi triennale, in rapporto all’Orestea di Eschilo) e poi man mano Fortini, Sereni, Zanzotto, Giudici, Rosselli, che a mio avviso restano ancora oggi dei poeti-serbatoio, centrali per chi ha scritto poesia dal 2000 al 2020. Questi baluardi del secondo Novecento (ma di nomi se ne potrebbero aggiungere, da Sanguineti, Luzi, Raboni) hanno riflettuto profondamente, anche in conflitto tra loro, su delle criticità in parte ancora attuali nel dibattito poetico, attuando nella propria opera un superamento dei limiti di una poesia impregnata di un codice di matrice petrarchesca ed ermetica, che facilmente può sfociare in un poetese vacuo e astratto, poco aderente alla magmaticità di un reale sempre più conflittuale: quello del dopoguerra, del boom economico, di intensi rivolgimenti a livello locale e globale, fino alla crisi protrattasi negli anni Ottanta e Novanta, con l’emergere sempre più incontrastato della società dei consumi e dello spettacolo, per giungere nel pieno della quarta rivoluzione industriale, quella informatica, in cui tutt’oggi ci troviamo, tra liqudità e desideri di ricompattamenti.
Se è vero che da sempre la grande poesia è di per sé qualcosa che ingloba un elemento di estraneità – lo xenicon direbbe Aristotele –, il poeta contemporaneo, in particolar modo, non solo è abitante straniero del mondo (reale e virtuale) e dei suoi Io, ma è anche atopos, ovvero senza un luogo predefinito, sempre teso a una ricerca di un cosmo – ciò di cui non c’è un fuori – attraverso l’invenzione di una forma, in un globo sempre più centrifugo, spiazzante e indecifrabile.
La poesia contemporanea italiana degli ultimi venti anni (2000-2020), quella a mio avviso più “di risultato” – fuori dalle etichette performativo, inperformabile, avanguardistico, retroguardistico – con le diverse direzioni che ha assunto, difficilmente classificabili in poetiche sistematiche condivise, può configurarsi come un tentativo sempre più “insulare”, nei suoi limiti e nei suoi pregi, di smarcamento da un logos dominante saturo.
In particolare, alcune delle caratteristiche della nuova poesia che stimo mi risultano: lingua stratificata, macrsotruttura elaborata, progetto di poetica chiaro, commistione di verso e prosa, stile individule riconoscibile, appelli a una dimensione relazionale, riconcepimento dell’identità umana, nuclei tematici che problematizzano l’esistenza in una società fluida etc.
Il rischio, tuttavia, resta paradossalmente proprio quello di rimarcare un certo senso comune, illudendosi di avere attraversato davvero la lingua e la storia, senza un’apertura autentica a orizzonti che sintetizzino efficacemente il rapporto tra una scrittura colta e un sentire sorgivo trasgressivo, in rapporto con aspetti antropologici, sociologici e del mondo scientifico. Penso, pertanto, che la migliore poesia italiana contemporanea sia quella non limitatamente chiusa in una certa italianità, in grado di superare il pericolo di impaludarsi nella ripetizione dell’ovvio, di narcotizzarsi in una stasi, che soltanto finge linguisticamente il movimento e il movente della poesia.
Alcuni poeti, di generazioni precedenti alla mia, immuni da questa narcotizzazione ho avuto modo di leggerli, frequentarli, studiarli criticamente, intervistarli per le rassegne MediumPoesia: Poesia o Contemporaneo e per il sito www.mediumpoesia.com che dirigo, proprio a partire dal mio trasferimento a Milano (fine 2015) per completare gli studi, città dove tutt’oggi risiedo (fine 2020). Saranno massimo una ventina i poeti viventi che hanno segnato il mio rapporto con la poesia contemporanea e la mia stessa scrittura.
Inizio a ricordane dieci, di cui ho apprezzato particolarmente l’opera poetica e/o intellettuale, permettendomi di accedere a tanti altri autori e nuovi orizzonti: seniores capaci di attuare una sintesi efficacissima tra storia personale e universale, con poetiche coscienti e una lingua responsiva, come Antonella Anedda (1955) con libri quali Notti di pace occidentale e Historiae, Franco Buffoni (1948) con libri quali Noi e loro e Jucci, Umberto Fiori (1949) con libri quali Voi e Il conoscente. Altri autori come Biagio Cepollaro (1959) con Lavoro da fare e Guido Mazzoni (1967) con La pura superificie, in cui resiste incredibilmente un’impronta marxista, mi sono risultati stimolanti per la lucida radicalità della critica sociale al mondo contemporaneo, attraverso un’opera volta a superare, con risultati pure assai diversi, una sterile dicotomia lirico-sperimentale. Accanto a essi, gli orizzonti nuovi sono quelli di poeti di più breve corso, ma già consolidato, che esordiscono proprio nel nuovo millennio, come ad esempio Vincenzo Frungillo (1973), Cristiano Poletti (1976), Franca Mancinelli (1981), Tommaso Di Dio (1982), Maria Borio (1985), in grado di tendere il soggetto tra l’altro e il nulla, in trazione tra viaggio e stasi, fuoriuscita nello straniero e radicamento in un’identità, con un sapiente lavoro formale e libri che problematizzano metamorficamente il rapporto tra tradizione e contemporaneo.
Un articolo a parte meriterebbe il discorso su l’oralità e la performatività nella poesia italiana contemporanea, ma mi limiterei qui a ricordare che, al di là della poetry slam in voga negli ultimi venti anni, a tal proposito un lavoro intenso e originale mi è parso quello di Ida Travi (1948), e già dagli anni Ottanta con conferme più recenti quello di Gabriele Frasca (1957), anche per il lavoro eccezionale sul metro. Non sarebbero da ignorare poi: una linea che riprende le neoavanguardie, quella della cosiddetta “Prosa in prosa”, e ricordare l’influsso esercitato non soltanto su questo gruppo da maestri novecenteschi come Nanni Balestrini (1935-2019) e Elio Pagliarani (1927-2012); la poesia dialettale, per cui ricordo il poeta da poco scomparso Franco Loi (1930-2021) con il suo peculiare milanese reinventato; una certa poesia di via romana che ha come capostipite Sandro Penna, che ha influenzato poeti e poetesse, soprattutto di area romana, di varie generazioni. In conclusione, vorrei poi ricordare l’importanza della poesia di Milo De Angelis (1951) con la sua linea “neo-orfica”, che ha esordito negli anni Settanta avendo esercitato e esercitando ancora oggi un chiaro ascendente nei poeti suoi cotanei e successivi (spesso con epigoni che non dicono molto), e infine due poeti accomunati oltreché da una morte precoce da una rivalutazione in corso, a paritre dagli anni Duemila, che attirano sempre più alcuni validi poeti della mia generazione: Mario Benedetti (1955-2020) e Giuliano Mesa (1957- 2011).
Foto: Antonello Ottonello – Aspettarsi (2014)